Rango è il capolavoro di Verbinski.
"Bella forza", qualcuno dirà, e in effetti il nostro si porta dietro una serie di film commerciali senza particolari pretese come il remake di The Ring e la trilogia dei Pirati dei Caraibi.
E anche parlare di una sua poetica suona po' eccessivo, diciamo che Rango è di certo una summa di temi e situazioni ricorrenti nel cinema del regista americano, ma c'è quel qualcosina in più. E non mi riferisco solo al gioco di riferimenti tipico di un cinema (pseudo)autoriale partorito dalla scuola di Tarantino (a proposito, qui trovate un riassunto delle citazioni più evidenti). Mi riferisco a quelle forme di neo-narrativismo che riescono a raccontare una storia SOLIDA su di un'impalcatura DENSA e PROFONDA.
Il trip della lucertola inizia sulla strada di The Mexican (e il giovane lucertolone si schianta sul parabrezza del Depp di Paura e delirio a Las Vegas a cui ha rubato la camicia a fiori) e si chiude nelle visioni lattee di Jack Sparrow. Nel mezzo, un discorso nouvelle vague sulla funzione del personaggio, quattro narratori che tradiscono la loro funzione (per quattro volte ci predicono la morte del protagonista), e una continua forzatura dei ruoli e delle funzioni diegetiche. Il tutto condito dai miracoli della CGI e dalla fotografia di Deakins (quello del Grande Lebowski, per intenderci). Ce ne sarebbe da discutere per un bel po' e non vedo l'ora di leggermi qualche analisi ben fatta (o un bel libro su Verbinski che sarà sicuramente in cantiere dopo questa perla).
Nel frattempo, andate a vederlo e, possibilmente, lasciate perdere le minchiate italiane in cartellone (il remake di Amici Miei? Ma fatemi il piacere!).