Mater Morbi: bentornato Dylan Dog

 
I conigli rosa uccidono
fu il primo Dylan Dog che lessi. Andavo all'asilo, quindi avevo 4 o 5 anni - mia madre m'insegnò a leggere e scrivere con largo anticipo rispetto ai miei coetanei, perché la seviziavo pomeriggi interi con la mia pila di Topolini - e Pink Rabbit, con la sua motosega, popolò i miei incubi per un discreto periodo della mia infanzia. Me l'aveva regalato un mio zio appassionato di fumetti, lo stesso che, sempre in quel periodo della dorata infanzia, mi avviò alla lettura di Conan, per riparare al danno fatto dando in mano a un bambino un fumetto pieno di violenza, frattaglie e un protagonista depresso, donnaiolo e un po' smidollato. Non che Conan fosse un eroe per educande, ma ai miei genitori appariva già un modello più sano. Di certo un barbaro muscoloso, ladro e puttaniere era molto meglio degli Amici e dei Grandi Fratelli che mediaset oggi ci propone.
 
Conservo quel numero di Dyd come una reliquia e, quando fui abbastanza grande da gestire una piccola somma di denaro (la famosa paghetta), invece di comprare sigarette e riviste pornografiche come i miei coetanei, tornai alla ricerca dell'investigatore dell'incubo, che alternavo con Il Giornalino e i supereroi. Era il periodo d'oro della gestione di Tiziano Sclavi, il creatore del personaggio, che per quasi una decade era riuscito a materializzare nelle tavole del mensile le inquietudini della generazione a me precedente: la droga, AIDS, l'inquinamento, la solitudine, l'abbandono... attingendo al vasto repertorio di pellicole horror dell'epoca per plasmare un orrore ancora più familiare, riconoscibile. Sclavi era un abile narratore, oggi mitizzato dai lettori orfani della sue storie. Il suo grande merito fu sicuramente quello di essere uno specchio dei tempi, anticipando, come solo i grandi autori (Romero, Dick, Matheson...) seppero fare, la deriva della società occidentale con un lucido occhio sociologico, deformato - forse solo mascherato - da una lente insanguinata.
  
Premessa lunga, ma necessaria, perché anch'io - nonostante andassi appena alle medie all'uscita del numero 100 - con l'abbandono di Tiziano, non riuscii più a leggere le storie dell'old boy e della sua fida spalla. Sospesi la serie, acquistando di quando in quando, con crescente delusione, qulache arretrato - a 50 c./1€ - alle fiere del fumetto. Sciarada di Paola Barbato, qualche anno fa, risvegliò il mio interesse. La sceneggiatrice milanese è un abile tessitrice di trame e, nonostante le prove seguenti faticassero a raggiungere lo stesso livello di quella storia, ho sempre avuto un occhio di riguardo, in edicola, per un albo da lei scritto. Ma, come si dice dalle mie parti, una rondine non fa primavera e a poco sono valsi i Color Fest (edizioni a colori con storie più cciovani) se non ad alimentare la mia nostalgia per l'età dell'oro dell'inquilino di Craven Road.
 
Ed eccoci a Roberto Recchioni, di cui, per un motivo o per l'altro, ho seguito buona parte della produzione italiana. Il modulo A38, prima storia da lui scritta per DYD, si rivelò un bel gioco letterario, migliore della prova sul Color Fest, e sufficiente ad aggiungerlo al mio parco autori da seguire. Non nutrivo grandi aspettative, lo ammetto, per Mater Morbi (uscito da poco nelle edicole), perché ero reduce dalla delusione di John Doe - una delle opere più rappresentative del RRobe -, persosi in un vicolo cieco autoreferenziale nella terza stagione e terminato anzitempo. Complice l'abile campagna pubblicitaria, ieri mi sono ricordato di acquistare l'albo fresco di stampa, per trovarmi la sera a leggere una delle migliori storie di sempre.
Recchioni, come Sclavi (sì, il paragone si osa, ed è meritato) fornisce un'interpretazione poetica e malinconica - come il maestro - di un'inquietudine, la malattia, donando il dramma personale e autobiografico alla narrazione, inframezzata da inserti citazionisti funzionali ad alimentare una maggiore comprensione - anche se inconscia nel lettore meno avveduto - delle vicende raccontate. Lo sceneggiatore romano si è guadagnato il favore di un nutrito seguito di lettori per aver saputo utilizzare un'enciclopedia culturale condivisa dal suo  pubblico e in Mater Morbi questa abilità si coniuga con una buona Storia, una consapevolezza discorsiva e, forse l'aspetto più importante, qualcosa da dire. Un bell'esempio di neonarrativa, come il Big Fish di Tim Burton, dove il mondo personale di un Autore (prima di tutto artigiano capace) collide con l'universo mediatico post-moderno, senza perdere di vista gli schemi del racconto. Il primo livello di lettura c'è, ed è rispettato. Forse il merito, in questo preciso caso, va alla gabbia Bonelli (in senso stretto - di tavola -, e in senso lato - limitazioni varie ed eventuali sul cosa e il come raccontare-) che Roberto ha saputo sfruttare in tutti i suoi limiti e potenzialità, allentando qualche bullone, grazie a una scelta delle inquadrature mai casuale, e un'efficace gestione dello spazio. E qui il merito va anche al disegnatore: Massimo Carnevale che, dal canto suo, realizza delle tavole mostruose, splendide. Null'altro da dire, solo il senso di meraviglia.
 
Bentornato Dylan Dog.