Non me lo fai un articolo? |
Quest'anno forsechessìforsechebboh chiude l'ordine dei giornalisti pubblicisti. Al momento non c'è una carta che definisca il percorso di assorbimento o di rigetto della categoria, quindi siamo in 80.000 che s'attende.
Se da un lato l'abolizione di un ordine istituito nel Fascismo può apparire una conquista ai più, dall'altro la sua parzialità (solo i pubblicisti, non i professionisti) in realtà limita ancora di più la sfera della casta, ponendo un ulteriore vincolo alla libertà d'informazione nel nostro paese (ché, non so voi, ma stare sotto al Benin...).
E questo per via di un ragionamento semplice. Tra le proposte per il mantenimento c'è il criterio basato sui versamenti all'Inpgi2 da parte di chi, pubblicista, ha percepito reddito da attività regolare e continuativa, provando così in modo inequivocabile di far parte di una redazione. Va da sé che il giornalista che percepisce uno stipendio in Italia è assunto. I quotidiani in Italia percepiscono tutti il contributo statale (fatta eccezione per il Fatto Quotidiano e qualche altro foglietto) per sopravvivere.
Restano i settimanali di politica e attualità (L'Espresso, Panorama, Internazionale e... qualcos'altro? Novella 2000?) e le testate web, ma accidenti, guarda un po', queste ultime, in particolare quelle di controinformazione spesso percepiscono guadagni sufficienti a pagare una cena alla redazione quella volta l'anno.
E allora? Basta rispolverare quella vecchia proposta in cui si paventava la possibilità che a tenere in piedi un blog (SCANDALO! SCANDALO! Ok, facciamo semplicemente "un sito d'informazione") sia necessario un giornalista iscritto all'albo ed ecco servita su un piatto d'argento la selezione del regime.
Ma come direbbe Maccio Capatonda: "chemmifrecaamme, io c'ho il Diesel"
Infatti, che ci frega a noi... mica leggiamo.